Cinquant’anni, nato a Torino, ma a Roma da prima di compierne cinque, Simone Spada è il regista della serie dedicata al vicequestore Schiavone, dalla terza stagione in poi. Aveva già lavorato con Marco Giallini al cinema, poi la coppia si è ritrovata sul piccolo schermo, per le avventure del poliziotto capitolino spedito “in confino” tra le Alpi.
Incassato il successo di pubblico delle quattro puntate messe in onda fino alla settimana scorsa, è ora a Milano, dove sta girando il seguito di “Studio Battaglia”, fiction dedicata a uno studio di avvocatesse. Però, l’eco di Schiavone era ancora troppo viva nell’aria, specie in Valle, per lasciar cadere il tema, specie con lui che dà forma visuale allo sguardo e ai tormenti del Vicequestore, e ne è nata una conversazione andata anche in onda su Radio Proposta Aosta…
Il linguaggio visivo
Partiamo dall’aspetto su cui più valdostani commentano dopo ogni puntata: le atmosfere della serie. Alcuni trovano sullo schermo un’Aosta molto meno colorata, più crepuscolare di quella che conoscono e guardano dalle loro finestre. Però, quella nella serie è la città percepita da Rocco: è così?
“Cerchiamo di restituire ai romanzi di Antonio Manzini un clima che, tra l’altro, si sposa molto con il genere noir. Quindi, anche se avessimo girato una città che non fosse Aosta, avremmo cercato quel crepuscolare di cui parli. Però poi, secondo me Aosta ne esce fuori sempre molto bella. Anche perché questa cosa che è circondata dalle montagne, che sono in contrasto con questo cuore caldo romano, e la neve, che comunque è misteriosa e fredda, secondo me restituisce, sia alla città che al personaggio, un bellissimo connubio”.
Sei abituato a spazi diversi, come appunto quelli di Roma. Cosa significa girare in un posto come Aosta? Voglio dire, in luoghi di mare hai uno sguardo sconfinato. Qui, ovunque ci si giri gli occhi incontrano un limite. È difficile, è comunque una sfida per il regista?
“Io direi che è il contrario. La mia sensazione è un’altra. Ormai sono tre stagioni che seguo Rocco, quindi sono molto affezionato proprio ai luoghi della città, della Valle d’Aosta. Anche perché è una montagna aspra, è una montagna che a me piace moltissimo e stimola tante suggestioni, non solo cinematografiche. Io non sento dei limiti quando sono ad Aosta, anzi sento più limiti in città, quando giro qualcosa, quando mi approccio a una serie, un film.
Tra l’altro sono molto legato alla neve. Anche nei miei due film cinematografici, Hotel Gagarin e Domani è un altro giorno… Hotel Gagarin si svolge in Armenia, a meno venti gradi, con questi personaggi immersi in un albergo circondato dalla neve. E la stessa cosa succede in Domani è un altro giorno che, per quanto sia un film che si svolge tutto a Roma, un film tra l’altro con Mastandrea e Giallini, diciamo che è un film che parte dalla neve.
Sono molto legato alla neve, sono molto legato alle montagne, anche per la mia infanzia. Io non sento la chiusura in Val d’Aosta, anzi sento una grande apertura perché la montagna, per quanto circondi la città, la mia sensazione è che sia larga, che sia ariosa”.
Rocco Schiavone è una serie noir, ma c’è, lo sappiamo bene, molto spazio per i sentimenti, per le sensazioni umane. Quanto ti aiutano a dare forma a tutto ciò paesaggi come le montagne e un capoluogo che per certi versi – tu vivi la metropoli, te ne sarai reso conto – è uno scrigno?
“Penso che il grande successo di Schiavone nasca anche da questa sorta di miscuglio di cose che dici. Il fatto che la città sia ridotta, che non sia una metropoli, la rende quasi un teatro e forse sottolinea ancora di più gli aspetti umani dei vari personaggi. Penso che la forza della storia risieda, ancor più che nei casi dei gialli, dei noir, nel fatto che la serie sia proprio dedicata ai sentimenti. A volte sono drammatici, a volte sono di commedia. Questo miscuglio crea un’empatia nei confronti dello spettatore”.
Il personaggio Schiavone
Lo hai detto poco fa, sei diventato regista del vicequestore Schiavone alla terza stagione. Avevi già lavorato con Marco Giallini, firmando, appunto, Domani è un altro giorno. Però per padroneggiare, per rendere anche visivamente, il mood del poliziotto in esilio in valle, ti sei dovuto preparare? E quanto, eventualmente?
“Penso che, come le cose buone che succedono nella vita, ti capita a un certo punto una proposta, che era quella che in qualche modo, inconsapevolmente, stavi aspettando. Quando mi hanno proposto di girare Rocco Schiavone, io ero anche un fan dei libri di Antonio Manzini, ancor prima della prima stagione, fatta poi da Michele Soavi. Comunque li avevo letti, perché ero curioso, perché mi divertivano. Non si sapeva ancora che Marco Giallini avrebbe interpretato Schiavone. Non si sapeva ancora che sarebbe diventata una serie Rai.
Era un genere di racconto che comunque prediligo, che mi piace, che mi diverte, che seguo, quello del noir, del giallo, chiamiamolo poliziottesco, anche se qui siamo proprio nel genere noir puro. Tendenzialmente, quando mi è arrivata questa proposta penso che fosse una cosa che già mi apparteneva, quindi non mi sono preparato particolarmente, se non nel dare risposta a quelle che erano le mie sensazioni, la mia sensibilità su quel tipo di racconto.
Poi è chiaro che devi conoscere le prime due stagioni che son state girate, il tipo di linguaggio e di ambienti. Devi avvicinarti a un personaggio che è già stato raccontato precedentemente. Però penso di essere più il padre io della serie tv di quanto lo siano i miei predecessori, che hanno fatto entrambi, sia Michele Soavi che Giulio Manfredonia, un ottimo lavoro. Però avendo fatto tre stagioni su cinque, penso di essere quasi, ormai, il padre putativo della serie tv”.
L’altro motivo di successo della serie è nel fatto che Marco Giallini ha un profilo perfetto per il personaggio creato da Antonio Manzini. Qualcuno si spinge a dire che Giallini è Schiavone stesso. Tu lo vedi in azione sul set più da vicino di chiunque altro: è davvero così?
“Faccio una metafora calcistica. Quando succede che arriva l’allenatore giusto con il giocatore giusto e una squadra vince quell’anno un campionato inaspettato… è un po’ successa la stessa cosa. Non credo che Manzini pensasse che si sarebbe mai fatta una serie tv quando ha scritto i primi romanzi. Poi succede che si decide di fare la serie tv. Poi succede che si decide il protagonista e capita Marco Giallini. Nessuno di noi può immaginare un Rocco Schiavone che non sia Marco Giallini e credo che lo stesso Marco possa misteriosamente pensare che è successa un’alchimia. Uno “sliding doors”, diciamo, in cui alla fine lui era già, forse, Rocco Schiavone…”.
Aspettava di saperlo…
“Aspettava di saperlo, senza saperlo. Son quei misteri delle cose che poi, alla fine, tornano magicamente e io voglio ancora credere che esistano nel nostro mondo, chiamiamolo artistico, anche se quando si fa una serie si sta più sul piano industriale. Però in Rocco Schiavone c’è spazio, forse si sente che è una televisione leggermente diversa, un po’ più, tra virgolette, profonda”.
Il successo con polemiche…
Una domanda anche rispetto a qualche polemica che c’è stata sull’attitudine “laica” di Schiavone. L’ipotesi di un passaggio su Rai Uno della serie, che era stato annunciato ma poi non si è concretizzato, aveva trovato poco d’accordo Marco Giallini per primo. Forse perché lo avrebbe portato a modificare, a edulcorare il personaggio?
“Sicuramente Rai Uno e Rai Due sono due case diverse, come finestre per un racconto di fiction. Diciamo che la serie Rocco Schiavone ha trovato sempre spazio su Rai Due nella sua storia. Io poi non saprei dare una risposta precisa, nel senso che non potrei dirti con certezza che su Rai Uno sarebbe andata meglio, su Rai Due, invece, sarebbe rimasta nella sua ‘comfort zone’.
Rocco Schiavone brilla di sé stesso, perché Rocco Schiavone è una serie che ha non degli ascoltatori, nel senso degli ascolti Auditel, ma degli ultrà veri e propri. Magari non sono i numeri alti che fanno le serie tv sulla rete ammiraglia, su Rai Uno, ma ogni volta che va su Rai Due raddoppia sempre lo share del canale. Quindi, forse, quella è la sua casa. E probabilmente sì, anche questo dà al racconto, a noi, a Marco, ad Antonio, forse più libertà artistica. Però, non saprei dirtelo perché non è che poi su Rai Uno per forza tagliano. Però è un pubblico leggermente diverso, un pubblico più ampio, e conosciamo quali sono le dinamiche in Italia, insomma”.
E’ anche il prodotto Rai più venduto all’estero. Te lo spieghi il successo internazionale?
“Guarda, questo dovrebbe far appunto pensare. Anche la ‘preghiera laica’, non è tanto la scorrettezza del gesto… Non voglio neanche stare a discutere delle polemiche politiche, perché io faccio un altro tipo di mestiere. Però, io credo che sia un racconto reale. La realtà poi premia, diventa universale, soprattutto nel 2023. Quindi, se si deve fare una serie, o un racconto, cinematografico o televisivo, bisogna stare dentro i tempi in cui si vive. Non si può far finta di non esserci. Andando incontro anche a qualche polemica, ci sarà sempre qualcuno che non apprezza. Però, io credo che se è il prodotto Rai più venduto all’estero, così mi dicono, vuol dire che il linguaggio che usiamo, il tipo di racconto visivo, il tipo di atmosfera, di messa in scena, di fotografia, di attori, di recitazione, forse viene riconosciuto come un linguaggio più universale”.
Rocco per chi lo ha diretto
Se ogni lavoro lascia qualcosa a chi lo realizza, cosa ti resterà del vicequestore Schiavone?
“Intanto, penso che abbiamo fatto un segmento di vita insieme. Quello che mi lascia è aver lavorato a un genere preciso di racconto, che mi ha reso più consapevole, più forte dal punto di vista proprio registico, della mia professionalità. E poi si è creato tra di noi un gruppo di lavoro meraviglioso, perché comunque veniamo in Valle d’Aosta da Roma in una cinquantina/sessantina di persone e stiamo lì per due-tre mesi, sviluppando un nostro piccolo microcosmo affettivo. Quindi anche con la città, con la Valle, abbiamo i nostri ristoranti, i nostri luoghi, le nostre casette. Questo mi lascia: un grande spazio, un grande ricordo. E posso anche dire di aver conosciuto da vicino un mondo, che è quello della Valle d’Aosta, di Aosta e non solo, che è molto fascinoso, in cui spero di tornare, a prescindere dal lavoro”.
Finisco con la domanda che dalla settimana scorsa tutti si pongono. Ci sarà una sesta stagione di Rocco Schiavone?
“Purtroppo non sono io quello che può rispondere a questa domanda. Non vedo perché no… Però, non sono io. Sicuramente, Antonio Manzini ha scritto già un bellissimo libro, che è ‘Le ossa parlano’, e credo che a fine maggio/quest’estate ne uscirà un altro, sempre di Rocco Schiavone, quindi il materiale per poter andare avanti c’è. Però, appunto, poi le scelte non spetta a me farle. Spetta ai produttori, spetta alla Rai, spetta a chi deciderà di produrlo, o meno. Però, tutti speriamo che ci sia. Soprattutto, ripeto, perché ormai abbiamo constatato che ci sono un paio di milioni di fan accaniti, quasi di ultrà, di Rocco Schiavone. Forse sarebbero quelli che ci rimarrebbero più male se fosse finita così. Anche perché non avrebbe tanto senso…”.
Senza spoiler per chi non l’ha ancora visto e lo recupererà su RaiPlay, ma il finale della quinta stagione è più che aperto…
“Assolutamente. Sembra non finire mai. Siamo solo noi che invecchiamo…”.